26 maggio 2015

Donne e lavoro

26 maggio – 2 giugno 2015
Centrale Montemartini (ex Centrale Termoelettrica)
Mostra organizzata da “Toponomastica femminile”

La rete ESPANSIONI partecipa con una testimonianza su sessolote, tabacheine, sopressatrici, lavandere raccontate da Cinzia Ivancic (vicepresidente della Comunità degli Italiani di Rovigno), Fabiamo Mazzarella (gestore con la sua associazione di Scout del Museo del lavatoio di san Giacomo), Chiara Simon (curatrice del Museo Postale di Trieste) e da Ester Pacor (udi). Sono piccole testimonianze di grandi storie di tante donne che vogliamo continuare a raccogliere per raccontare ancora altri mestieri.

“Sessolote” - mondatrici a Trieste

Veniva chiamata "sessolota" la mondatrice di merci che usava  la "sessola" una pala di legno non piatta, piegata a mo' di gronda, con manico, che spesso veniva sostituito da  un'impugnatura molto corta. Con questo strumento le donne prendevano una palata di merce da mondare; con rapido e sicuro gesto la gettavano in aria, affinché durante la ricaduta nella sessola, le impurità se ne andassero. A volte anche soffiavano sulla merce stessa per  separare meglio le granaglie.

Fare la “sessolota” a Trieste  nell'800 e nella prima metà del '900 era l'unica alternativa di lavoro per donne sfortunate, per lo più vedove, ragazze madri, donne in miseria, che per tirare avanti lavoravano a cottimo, mondando merci sia in porto che nei magazzini dei privati. Erano ragazze di varie nazionalità pagate con pochissimi soldi.

Una volta le merci arrivavano nei sacchi. Spesso la preparazione all'origine era carente e pericolosa;  eventuali sassi o pezzetti di legno nel caffé, potevano rovinare sia la tostatrice che gli ingranaggi dei macinini. Queste donne erano preziose, ma non solo per la pulizia del caffé, anche della gomma arabica, del pepe, delle mandorle , delle spezie, ecc.

Alle volte capitava che in porto arrivassero carichi avariati; le nostre “sessolote” avevano il compito di dividere la merce sana da quella andata a male, sia per abituale marciume (come le patate, gli agrumi e le cipolle), ma anche per contaminazione dell'acqua marina.

La sera prima di rientrare raccoglievano un sacco con trenta o quaranta chili di merce da mondare  continuavano il lavoro a casa. Si ponevano il sacco sul capo, sopra un morbido cuscinetto rotondo.

Questo sacco veniva da loro chiamato "el peso" (il peso). Sulla strada del ritorno le “sessolote” formavano un corteo spedito ed ordinato e intonavano i canti dei ritornelli più in voga o delle melodie liriche più popolari.

Erano tutte donne coraggiose, donne generose, magnifiche popolane, che allietavano il loro monotono e duro lavoro, con il canto. Donne che si contendevano i lavori e che erano pronte ad attaccar briga e menar le mani, con chi faceva loro un torto, salvo ad esser pronte al gesto di perdono ed essere generose con chi aveva bisogno.

Le “sessolote” sono state protagoniste di scioperi e rivendicazioni. Qui le vediamo tra le partecipanti alla "passeggiata operaia" del maggio 1902. Erano vietate le manifestazioni del 1° maggio Festa del Lavoro e la "passeggiata” le sostituiva.

Giuseppina Martinuzzi (1844-1924) maestra, scrittrice, giornalista, così testimonia la situazione della città alla fine del 1800: "A Trieste conobbi una civiltà che accarezza, che attrae nei caffè e nei teatri, mentre più in là, ad un passo di distanza, oltre quella fila di case, una folla di straccioni che rappresenta due terzi della popolazione, se non più, stenta a guadagnare di che sfamarsi, ignora le carezze dei sentimenti gentili, spira sull' infanzia l' alito infetto della bestialità, versa sulla vecchiaia la feccia della coppa che aveva contenuto miseria, miseria, miseria”.

Le “sopressadore” stiratrici della città di Trieste 

Siamo alla fine dell’Ottocento, durante la “belle epoque”, in un periodo storico di pace e per molti, anche di benessere. Le donne benestanti vestono abiti, confezionati con stoffe pregiate molto costose, ricchi di pieghe e fronzoli, i loro compagni camicie con pettorine e colletti sempre inamidati. Per questo motivo, un lavoro molto popolare e richiesto all’epoca è quello della “stiratrice” impegnata a mantenere in ordine questi sontuosi vestiti.  A Trieste è chiamata ”sopressadora” dal verbo ”sopressare” cioè passare con un ferro pesante sopra una stoffa per renderla liscia e ben stirata. E’ un lavoro molto faticoso, le nostre donne stanno, tutto il giorno, curve sul tavolo da stiro e maneggiano ferri molto pesanti; i più comuni: “ferro ad anima” cioè un ferro a doppio fondo, entro cui  si inserisce  una lastra di ghisa arroventata per conservare più lungamente il calore; “alto” con buchi di sfogo laterali che contiene al suo interno un piccolo fornello con la brace o carbonella;  “ferro di ghisa” che viene riscaldato sulle stufe.

Lavoro molto duro, ma anche pericoloso; le nostre stiratrici, infatti, devono usare il loro ferro da stiro con molta attenzione, non devono scottarsi e soprattutto devono evitare di bruciare gli indumenti, che se da loro rovinati, devono venir ripagati. Lavorano tutto il giorno, dalle sette del mattino alle otto di sera e per pranzare è loro concessa una breve pausa di 20 minuti.

Il pranzo, spesso, è compreso nel contratto di lavoro e per questo motivo quasi sempre molto scarso e di pessima qualità. Lavorano tutti i giorni della settimana dal lunedì al sabato, compresa la domenica mattina.

Il progresso e le conseguenti invenzioni di ferri più moderni, veloci e meno pesanti, mettono a rischio molti posti di lavoro di queste donne, che sono licenziate e già allora, sostituite dalla nuova  tecnologia.

Fra i giornali d’epoca, scopriamo che il quotidiano della città di Trieste,  “IL PICCOLO” del gennaio del 1891, riporta la protesta di un gruppo di stiratrici che perdono il  lavoro proprio a causa dell'introduzione di nuovi metodi di stiratura.

Le tabacchine - “tabaccheîne” di Rovigno

Le donne rovignesi si sono distinte per la loro emancipazione e indipendenza sin dal lontano 16 agosto 1872, quando, grazie al Podestà di Rovigno dott. Matteo Campitelli e al volere dell'Impero Austro-Ungarico, il Monopolio di Stato inaugura un reparto per la lavorazione del tabacco nella caserma di S.Damiano. Le prime ragazze a proporsi per l'assunzione alla Manifattura Tabacchi di Rovigno furono 700; già nel 1873 su 401 operai le donne erano 391, pioniere di quell’emancipazione femminile che le portò non solo a contribuire attivamente a migliorare la situazione economica familiare, ma soprattutto ad affermarsi personalmente. Dunque la donna fino ad allora abituata a stare a casa per accudire i figli, ebbe la possibilità di lavorare e contribuire lei stessa al mantenimento della famiglia, svincolandosi così dalla mentalità conservatrice di quel periodo che la voleva relegata nelle mura domestiche.  Queste pioniere, tra cui ragazzine sotto i 14 e giovani tra i 25 e i 35 anni, iniziarono a fabbricare sigari di media qualità destinati a rifornire l'esercito e le regioni periferiche dell'Impero. Le tabacchine selezionavano e lavoravano le foglie di tabacco, ed avvolgevano a mano i sigari in modo da creare un prodotto di bell'aspetto e di buona qualità.

Il salario non era alto e veniva loro corrisposto settimanalmente, ma se i sigari prodotti non erano perfetti, non venivano pagate, erano donne italiane e lavoravano a cottimo. Lavoravano in grandi sale, sedute le une accanto alle altre, ed il loro unico passatempo, per rallegrare le ore di lavoro, era il canto, che è sempre stata la forma d'arte prediletta dai rovignesi. L'orario di lavoro superava  le 10 ore giornaliere; per questo fu messo a disposizione delle madri un “cunambolo“ (asilo nido) dove i loro figli venivano accuditi, dando loro la possibilità di andare di tanto in tanto ad allattare i neonati. Le tabacchine venivano rispettate per la posizione sociale che occupavano; erano donne, a volte vedove, che provvedevano a mantenere la propria famiglia, cosa che invece negli ambienti rurali era considerata assurda se non impossibile. Il lavoro della manifattura di sigari divenne così una tradizione, tanto che di generazione in generazione le figlie erano fiere di fare lo stesso lavoro delle loro mamme e nonne. Posizione di altissimo pregio e rispetto era la figura della “maestra“ che insegnava alle giovani operaie l'arte di avvolgere i mano i sigari.

Le tabacchine sono senza ombra di dubbio uno degli esempi di crescita della donna, volta all'emancipazione, all'indipendenza, alla valorizzazione del proprio ruolo, all'importanza del lavoro e alla parità di diritti tra donne e uomini. Esse sono state rivoluzionarie nel loro campo e hanno aperto le porte alla società moderna dove entrambi i coniugi contribuiscono al benessere della famiglia.

“Le tabaccheîne“ di Carlo Fabretto è una canzone tradizionale del repertorio folcloristico di Rovigno che viene cantata ancora oggi con immenso orgoglio per ricordare la tradizione della Manifattura Tabacchi rovignese e la nobiltà delle nostre nonne e bisnonne.

Le lavandaie  - “lavandere” di Trieste

Oggi biancheria e vestiti sporchi vengono inghiottiti da bianche scatole di latta e dopo un tempo variabile restituiti puliti e  asciugati, ma c’è stato un tempo, neanche lontano, che panni e lenzuola venivano lavati a mano con grande fatica, in acqua fredda, con la cenere e il sapone a scaglie. Era un duro lavoro da donne, che meno di cento anni fa andavano alla fontana a prendere l’acqua, perché in casa ancora non c’era, e poi si consumavano le mani a strigliare e strizzare, sbattere e risciacquare. Alcune facevano questo di mestiere e a Trieste le donne che lavavano i panni propri o altrui dietro un di solito misero compenso erano chiamate “lavandere”.  Le si vedeva nelle vie con il loro sacco di “roba sporca” poggiato sulla testa avviarsi verso i lavatoi o nei piccoli ruscelli nelle periferie. Finalmente nei primi anni del ‘900 le “lavandere” del rione di San Giacomo in cui vivevano gli operai dei cantieri e delle fabbriche con le loro famiglie ebbero un lavatoio con acqua corrente e una trentina di vasche di cemento in cui potevano svolgere il loro lavoro e nello stesso tempo scambiare quattro chiacchiere con le amiche, senza perdere d’occhio i bambini che un po’ giocavano e un po’ aiutavano.

Ora questo lavatoio non c’è più ma sopravvivono alcuni altri,  aperti dopo la prima guerra mondiale, per le aumentate esigenze di un quartiere cresciuto troppo in fretta. Il Comune costruì nel 1935 un altro lavatoio, più grande, dotato di 72 vasche e provvide a fornire anche acqua calda a poco prezzo.

Nel contempo saponi migliori e detersivi chimici avevano reso meno duro il lavoro delle “lavandere”, che comunque proseguì con modalità pressoché uguali ben oltre gli anni ’50 del secolo appena trascorso, soppiantato molto gradatamente dalle prime lavatrici meccaniche che con il crescere della società del benessere entrarono anche nelle case dei ceti popolari a cominciare dagli anni ’60. Comunque i lavatoi del quartiere, funzionanti e aperti al pubblico fino agli inizi degli anni ’80, rimangono a testimoniare un lavoro prettamente femminile portato avanti a San Giacomo fino a ieri l’altro di cui è bene non disperdere saperi e testimonianze.  Nel più vecchio lavatoio di San Giacomo l’unico ancora esistente dopo la demolizione di quello di via Ponzanino è aperta una Mostra dedicata alle “lavandere” che giorno dopo giorno consumarono all’aperto mani e vita per qualche soldo ad integrazione di salari certo non ricchi assicurando nello stesso tempo igiene e decoro a se stesse e alle loro famiglie.